La pubblicazione degli scritti del col. Paolo Angioni continua con la sesta parte del manuale di equitazione , redatto nel 1992 in occasione del 13° corso istruttori, svoltosi ai Pratoni del  Vivaro.
Un testo di grande valore tecnico, corredato da numerosi riferimenti bibliografici, caratterizzato da un'estrema chiarezza espositiva degli argomenti trattati.
Il manuale sceglie di trattare prima di tutto la materia che riguarda l’addestramento del puledro, e non quella che riguarda il cavaliere, perché ogni allievo del corso aveva ricevuto in lavoro un puledro di quattro anni appena compiuti in preparazione per il Premio Nazionale Allevamento
 
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La pubblicazione degli scritti del col. Paolo Angioni continua con la quinta parte delmanuale di equitazione , redatto nel 1992 in occasione del 13° corso istruttori, svoltosi ai Pratoni del  Vivaro.
Un testo di grande valore tecnico, corredato da numerosi riferimenti bibliografici, caratterizzato da un'estrema chiarezza espositiva degli argomenti trattati.
Il manuale sceglie di trattare prima di tutto la materia che riguarda l’addestramento del puledro, e non quella che riguarda il cavaliere, perché ogni allievo del corso aveva ricevuto in lavoro un puledro di quattro anni appena compiuti in preparazione per il Premio Nazionale Allevamento
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La pubblicazione degli scritti del col. Paolo Angioni continua con la quarta parte del manuale di equitazione, redatto nel 1992 in occasione del 13° corso istruttori, svoltosi ai Pratoni del  Vivaro.
Un testo di grande valore tecnico, corredato da numerosi riferimenti bibliografici, caratterizzato da un'estrema chiarezza espositiva degli argomenti trattati.
Il manuale sceglie di trattare prima di tutto la materia che riguarda l’addestramento del puledro, e non quella che riguarda il cavaliere, perché ogni allievo del corso aveva ricevuto in lavoro un puledro di quattro anni appena compiuti in preparazione per il Premio Nazionale Allevamento
 

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La pubblicazione degli scritti del col. Paolo Angioni continua con la terza parte del manuale di equitazione , redatto nel 1992 in occasione del 13° corso istruttori, svoltosi ai Pratoni del  Vivaro.
Un testo di grande valore tecnico, corredato da numerosi riferimenti bibliografici, caratterizzato da un'estrema chiarezza espositiva degli argomenti trattati.
Il manuale sceglie di trattare prima di tutto la materia che riguarda l’addestramento del puledro, e non quella che riguarda il cavaliere, perché ogni allievo del corso aveva ricevuto in lavoro un puledro di quattro anni appena compiuti in preparazione per il Premio Nazionale Allevamento
 

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Nella foto: il col. Paolo Angioni
La pubblicazione degli scritti del col. Paolo Angioni continua con laseconda parte del manuale di equitazione, redatto nel 1992 in occasione del 13° corso istruttori, svoltosi ai Pratoni del  Vivaro.
Un testo di grande valore tecnico, corredato da numerosi riferimenti bibliografici, caratterizzato da un'estrema chiarezza espositiva degli argomenti trattati.
Il manuale sceglie di trattare prima di tutto la materia che riguarda l’addestramento del puledro, e non quella che riguarda il cavaliere, perché ogni allievo del corso aveva ricevuto in lavoro un puledro di quattro anni appena compiuti in preparazione per il Premio Nazionale Allevamento
 

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La pubblicazione degli scritti del col Paolo Angioni continua con il manuale di equitazione, redatto nel 1992 in occasione del 13° corso istruttori, svoltosi ai Pratoni del Vivaro.
Il testo è preceduto da una prefazione dell'autore e da una premessa storica.
Il manuale sceglie di trattare prima di tutto la materia che riguarda l’addestramento del puledro, e non quella che riguarda il cavaliere, perché ogni allievo del corso aveva ricevuto in lavoro un puledro di quattro anni appena compiuti in preparazione per il Premio Nazionale Allevamento.
Il manuale di equitazione - Parte 1: manuale di equitazione parte 1
Nella foto: il col. Paolo Angioni e l'ing. Mauro Checcoli, insieme agli allievi del corso sperimentale per Maestri di Equitazione, tenuto dal 1990 al 1992.
L'addestramento: la teoria
L’ educazione o la formazione o l'addestramento di un cavallo hanno ricevuto varie classificazioni e divisioni temporali manualistiche. L’ origine del fatto risale ai regolamenti militari che, per necessità funzionali , dovevano 
porre obiettivi, procedimenti per raggiungerli e scadenze di tempo per l'addestramento del cavallo così come per l'addestramento della truppa. I regolamenti erano fatti per migliaia di uomini e di quadrupedi. Cavalieri e cavalli non potevano essere considerati sotto il profilo artistico.
Tralascio dunque queste ricette che il lettore può trovare in pubblicazioni apposite e vengo alle idee che informano il lavoro che un puledro di tre o quattro anni, uscito dallo stato brado, segue per diventare il soggetto dell’equitazione, quale che sia la destinazione specialistica, sportiva o accademica, che gli si voglia in futuro dare. Innanzi tutto l’età. Più il puledro è giovane, e mi riferisco a cavalli detti genericamente da sella e non purosangue da corsa, per i quali valgono altre considerazioni, più le sue ossa e le sue articolazioni sono fragili. Deve avere il tempo di completare la crescita e rafforzare arti e articolazioni prima di sopportare sforzi fisici con il peso del cavaliere. Ma quando è giovane, la sua capacità di apprendimento è maggiore. È una carta assorbente. Le impressioni che riceve - buone o cattive che siano - si stampano nella sua memoria, la facoltà che nel cavallo predomina di gran lunga su ogni altra, in modo pressoché indelebile. Quindi si può far precedere il lavoro fisico o muscolare da un lavoro psicologico, che non tara il fisico né lo affatica, ma che origina il linguaggio convenzionale attraverso il quale il cavaliere comunica con il cavallo e il cavallo comprende il cavaliere. Questo primo passo è fondamentale e investe un’ importanza che spiega la ragione di quasi tutti gli insuccessi. Per esemplificare, è chiaro a tutti che nessun cavallo alla nascita sa che le redini che tirano sono l'ordine di rallentare, fermare o girare e che le gambe che battono i fianchi sono l'ordine di avanzare. Eppure quanti cavalieri cominciano l’ addestramento di un puledro proprio in questo modo, più o meno abilmente, ma concettualmente in modo sbagliato. La così detta “doma” e i procedimenti in uso nei nostri allevamenti non sono altro che un corollario dell’errore concettuale.
E’ stato Gustave le Bon nella sua opera L’ équitation actuelle et ses principes (1892) a spiegare per primo in forma scientifica che l’addestramento del cavallo è un’operazione di psicologia. (...)
La legge fondamentale sulla quale si basa l'addestramento, e qui bisogna chiarire che il fatto più importante è stabilire il linguaggio convenzionale, è quella dell'associazione di impressioni. Le due forme di associazione, alle quali si riportano tutte le altre, sono l'associazione per vicinanza e quella per rassomiglianza. L’educazione dei cavallo si fonda soprattutto sull’associazione per vicinanza, che può essere così espressa: “Quando più impressioni si sono prodotte simultaneamente o si sono succedute immediatamente, basta che una di esse si presenti perché le altre vengano subito richiamate alla memoria" (le Bon). Esempio: il tocco di una bacchetta (dizione più appropriata nell'addestramento che quella di “frusta”) su un arto posteriore che si produce simultaneamente allo schiocco della lingua dell'addestratore e all’aiutante, che tiene il puledro a mano, che nello stesso istante avanza, fanno avanzare il puledro. Attraverso la ripetizione si consegue il risultato che il solo schiocco della lingua diventi per il puledro il segnale di avanzare.
Ogni lavoro, ogni tipo di addestramento, anche il più facile, esige dapprima l'attuazione di un linguaggio convenzionale chiaro e preciso, sempre uguale, al quale il cavallo, attraverso la ripetizione, risponda prontamente, esattamente e serenamente. Per serenamente s'intende non solo che il suo sistema nervoso non si alteri, ma che conservi la massima confidenza, come in un gioco, con l'addestratore a piedi, poi con il cavaliere. La seconda regola fondamentale è che bisogna conquistare attraverso il convincimento l'obbedienza del cavallo e meritarla. Affinché la riuscita dell'addestramento sia ottima, bisogna che l'obbedienza sia completa e che, allo stesso tempo, non essendo stata ottenuta con la forza o, peggio, con la violenza, sia gioiosa, quasi “sorridente” (De Carpentry). La costituzione mentale del cavallo non permette all' addestratore di mostrare e poi far eseguire, come avviene nell'insegnamento rivolto all'uomo. Spiegazione ed esecuzione nel cavallo fanno tutt'uno. Eseguendo e ripetendo, il cavallo impara. Affinché il linguaggio convenzionale e la ripetizione abbiano i loro benefici effetti sull'addestramento, bisogna che l'addestratore sia certo, in ogni momento, di essere compreso dal puledro. La comprensione è dimostrata dall'obbedienza. Anche la comprensione e l'obbedienza nel cavallo fanno tutt'uno. Il puledro che nel corso dell'addestramento non ubbidisce, non ha compreso. Occorre allora tornare indietro. Anche i procedimenti errati vengono memorizzati dal puledro, con i loro frutti cattivi che si ripresenteranno al primo disaccordo o alla prima difficoltà. Affinché esegua con facilità un determinato esercizio utile alla progressione del suo addestramento, è necessario che il puledro sia messo in una condizione psichica e fisica tale da provocare l'istinto a compiere quel dato esercizio. Il procedimento dev'essere osservato scrupolosamente, affinché nel puledro si instauri l'abitudine a compiere quell'esercizio, in modo che l'esecuzione diventi quasi volontaria. Ma attenzione. Il puledro deve rispondere al linguaggio degli aiuti del cavaliere e non alla routine la quale porta semplicemente all' ammaestramento.
Terza guida da tenere sempre presente, sia nel piano generale che si prepara per ciascun cavallo in lavoro, sia nel lavoro quotidiano, è la successione degli scopi posti dal generale l'Hotte, perché sono pochi e semplici, facili da tenere presenti alla mente anche tra le difficoltà dei lavoro pratico: “cavallo calmo, in avanti, diritto". E’ necessario porre l'accento sull'importanza del primo scopo, la calma, che, se non raggiunta, rende tutto il seguito precario, costruito sulla sabbia.
La quarta direttiva è che il movimento eseguito in una qualsiasi attitudine (postura o posizione delle varie parti del corpo, le une rispetto alle altre) sviluppa i muscoli di tutto il corpo del cavallo. Il risultato da raggiungere è l'attitudine giusta. Bisogna dunque che fin dal primo giorno il puledro lavori giusto, in modo che lo sviluppo muscolare dia l'orma all'attitudine giusta e, viceversa, l'attitudine giusta consenta uno sviluppo muscolare armonioso, funzionale, utile.
E’ più facile l'addestramento di un cavallo che non ha conosciuto il peso del cavaliere e non ha ricevuto cattive impressioni morali e brutte abitudini di portamento, che il riaddestramento di un cavallo che ha già lavorato in attitudini sbagliate e perso la completa confidenza nel cavaliere.
Definire la posizione giusta non è semplice e breve. Esce dai limiti del presente scritto. Basterà, succintamente, dire quanto segue: i muscoli della parte superiore del corpo del cavallo (elevatori del collo e dorsali: lungo-spinoso e lunghissimo del dorso) e quelli della parte inferiore (flessori del collo, addominali e psoas) sono antagonisti fra loro: quando gli uni si allungano, gli altri si accorciano e viceversa. Il raccorciamento dei muscoli che impegnano e attraggono sotto la massa i posteriori (addominali) può avvenire se si allungano i muscoli superiori (il lungo-spinoso e lunghissimo dorso). Ciò crea, oltre all'impegno dei posteriori, la tensione dei muscoli del dorso, fondamentale per il lavoro e per la trasmissione dell'impulso, che nasce dal cervello, ma viene prodotto dai posteriori. I muscoli del dorso vengono tesi anche verso l' avanti se il cavallo avanza con il collo in una direzione obliqua verso il suolo. Tende i muscoli dell'incollatura e li sviluppa. Inoltre l'allungamento dei muscoli superiori raccorcia i muscoli antagonisti elevatori della base dell'incollatura, che a loro volta sono congeneri dei muscoli che impegnano i posteriori. Il puledro, così, non solo si impegna dietro, abbassando le anche per spingere i garretti sotto la massa, ma si farà grande al garrese e leggero.
Lavorando in questa attitudine il puledro si conforma muscolarmente e si può dire che venga obbligato dalle sue masse muscolari a non uscire da questa postura ideale.
La quinta guida (per quest'ordine di esposizione, ma nella pratica è alla pari con le precedenti) è "dividere ogni difficoltà che si prende in esame in tante particelle quante sono utili per meglio risolvere le difficoltà (Cartesio; ma il precetto è passato in equitazione, pari pari, in Baucher). Il che equivale ad affrontare le difficoltà una per una, individuando la principale e la prima, da cui spesso si originano le altre. Risolvere prima le difficoltà derivanti dalla mancanza di calma, poi quelle dovute alle imperfezioni di equilibrio, infine quelle dovute a resistenze di forza (de Saint-André).
L’ ultima guida, in questa troppo breve e sommaria esposizione, e molte altre ne potrebbero seguire, non meno importanti, è che se vogliamo trattare il puledro come soggetto futuro atleta, esso deve essere esercitato in qualsiasi tipo di spostamento, in avanti, lateralmente, indietro, in modo che le articolazioni di tutto il suo corpo (le giunture delle grandi ossa superiori, dei raggi ossei inferiori, le vertebre della spina dorsale, specialmente quelle dorsali e lombari) acquistino la più ampia libertà di movimento. E le grandi e piccole masse muscolari che collegano le varie parti della struttura scheletrica, che aprono e chiudono gli angoli articolari, che adducono e abducono gli arti, che corrono lungo tutta la parte superiore del corpo, dalla testa alla coda e danno compattezza alla spina dorsale, per non citare che le principali, siano sviluppate, rese elastiche e tonificate per funzionare nel modo migliore. Se ciò non avviene, ecco le resistenze alla mano, la scarsità o la mancanza d'impulso, le contrazioni inutili e le difese. In breve: ecco le difficoltà che sorprendono il cavaliere poco informato, illuso di aver fatto del suo meglio.
Per finire: è necessario fondere insieme l'impulso, l'energico movimento in avanti controllato dagli aiuti del cavaliere, con la flessibilità delle articolazioni, che in equitazione sono tutti gli angoli che generano forza, ma possono diventare, allo stesso tempo, punti di resistenza.
 
Nella foto: il col. Paolo Angioni
 
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La confidenza si raggiunge con il contatto fisico tra uomo e cavallo. Il puledro può diventare simile a un cane: segue l'uomo, che diventa da questo momento addestratore, ovunque, ed è bene verificare che lo faccia, portato sia a destra, sia a sinistra. Deve conoscerne la voce che, con un tono dolce, accompagnata da una ghiottoneria e da una carezza, assume il significato di ricompensa. La parola “bravo”, ripetuta ogni volta che si dà una zolletta di zucchero o una manciata di biada, acquista, pronunciata da sola, un potere calmante, rassicurante, di premio.
Il puledro, da quando ha incontrato l'uomo, è abituato a essere per consuetudine dell'uomo avvicinato, coperto, incapezzato, scapezzato, condotto solo dalla sua sinistra. Non segue l'uomo se questi si mette alla sua destra. Deve invece imparare a farlo, perché è una premessa necessaria per il lavoro “a mano” e alla corda a entrambe le mani e la condizione della simmetria muscolare, quindi della precisa obbedienza agli aiuti.
Della confidenza fa parte la conoscenza della bacchetta e la più completa fiducia del puledro in questo leggero bastoncino rigido di legno, spesso poco più di un centimetro e lungo anche un metro e venti centimetri, con il quale l'addestratore giunge, tenendo l'animale per la capezza, a toccarlo in ogni parte, sia a destra, sia a sinistra, accarezzandolo sul dorso, sulla groppa, lungo i fianchi e le cosce, lungo gli arti anteriori e posteriori, al loro interno, sotto il ventre, sul capo, tra le orecchie, sul muso e lungo la criniera, come se la bacchetta fosse la mano. Se il puledro in precedenza non ha conosciuto la “frusta”, si può agitare la bacchetta davanti ai suoi occhi, accarezzandolo le prime volte con l'altra mano, senza che esso dia segno del minimo sospetto. Tutt'al più mostra curiosità. Con un cavallo che si prova per la prima volta, la verifica della confidenza che esso ha con un oggetto che può ricordare la frusta è un segno della qualità dell'addestramento che ha ricevuto.
E’ importante, perché la bacchetta nel lavoro a piedi diventa lo strumento per far avanzare il cavallo, per far girare la sua groppa intorno alle spalle, per farlo indietreggiare, per muoverlo lateralmente, per spingere maggiormente gli arti posteriori sotto la massa. Il lavoro alla corda è necessario sia per far smaltire prima del lavoro “a mano” quell'eccesso di energia che il puledro accumula durante il riposo in scuderia, sia per precisare il linguaggio convenzionale, sia fine a sé stesso, per lavorare il cavallo quando non si può montare, sia per esercitarlo sul salto, facendogli superare libero, anche in campagna, gli ostacoli (fossi, riviere, salti nell'acqua, talus, combinazioni, ostacoli in dislivello, ... ) che dovrà saltare con il cavaliere. Questo accorgimento sviluppa una grande fiducia del puledro nei propri mezzi e ne accresce iniziativa e abilità. Gli insegna a rendersi padrone del proprio equilibrio in situazioni di difficoltà volutamente predisposte dall'addestratore.
Alla corda, il puledro deve imparare a girare con la stessa facilità a destra e a sinistra, mantenendosi alla distanza voluta dall'addestratore, senza chiudere il circolo,né tirare verso l'esterno. Deve imparare a ubbidire al suono delle parole “passo”, “trotto”, “galoppo”, “alt””, “vieni” , attraverso la ripetizione e la ricompensa. Inutile aggiungere altri suoni a questo ridotto ma sufficiente vocabolario. Nelle prime sedute di lavoro è necessario un aiutante che conosca il mestiere e i procedimenti. Il frustone sostituisce la bacchetta. Si ripetono le stesse operazioni per la confidenza con il frustone.
Nel lavoro alla corda si usa il capezzone, ben imbottito nella parte che si applica al muso. Aggiunto al capezzone, un filetto con stanghette abitua il puledro all'imboccatura.
Quando il puledro ha imparato a girare alle due mani e a ubbidire al richiami della voce, affinché prenda fin dalle prime volte una buona posizione di collo e di testa, è utile usare una redine speciale. Dea* ha usato per circa un mese la redine gogue indipendente, perfezionata dal colonnello Margot. Così da chiamarsi “gogue Margot”. Il primo è il cognome dell'ingegnere e cavaliere che l'ha ideata. Questa redine ha il vantaggio di lasciare libero il bilanciere, fatto di capitale importanza, evitando però gli atteggiamenti scorretti sul piano orizzontale e verticale, tendendo l'incollatura in avanti, obliquamente verso il terreno, ciò che distende, di conseguenza, i muscoli dorsali. Il grado dì tensione che si dà alla redine regola il grado d'inclinazione dell'incollatura.
La redine è un artificio necessario, utile, inutile, dannoso a seconda della conformazione del puledro. Sta all'intelligenza e alla perizia dell'addestratore usarla o no e soprattutto, nel caso la usi, aggiustarla. Può diventare, come tutti gli aiuti artificiali, un'arma a doppio taglio. Perciò bisogna osservarne, di giorno in giorno, gli effetti. E’, per esempio, sconsigliabile con un cavallo costruito pesante davanti, con la groppa più alta del garrese (“in discesa”), anche se porta, ammesso, la testa al vento. Il lavoro in libertà in maneggio coperto o scoperto (o nel corridoio, per chi lo possegga), con due persone che mantengano il puledro sulla pista, è utile. Il puledro può galoppare e acquistare più facilmente quel primo grado di condizione fisica che gli consente di sopportare con minor fatica il lavoro, soprattutto montato. Prende confidenza con le prime barriere a terra sulla pista e con i primi piccoli ostacoli, anche se non si desidera farne un saltatore, ma un cavallo accademico. Sono tutti esercizi di ginnastica e di muscolazione non specialistica.
Il lavoro “a mano” o, se si vuole, “a piedi” o “smontato” (ma la prima dizione è quella classica) è anch'esso utile. C'è chi ne ha fatto e ne fa a meno e ha costruito campioni di salto. Perciò potrebbe sembrare superfluo. Invece, per l'addestramento di un cavallo che diverrà facile e maneggevole, anche nella competizione di salto, è difficilmente sostituibile.
Pur avendo avuto origine nelle accademie equestri italiane del Rinascimento, non è praticato in Italia. Non viene insegnato nelle nostre scuole di equitazione, né se ne trova traccia nei libri recenti o contemporanei italiani. Caprilli conosceva e praticava il lavoro. Due fotografie con la cavalla Itala, scattate a Tor di Quinto nel 1906, lo documentano. I puristi caprilliani, per giustificare questo legame con il lavoro genericamente definito “di scuola”, dicono che Caprilli vi si dedicasse per ingraziarsi le autorità militari, sospettose di quel giovane capitano rivoluzionario. Ma altre testimonianze, tra cui quella dell'allora sottotenente Amalfi, allievo del primo corso Caprilli, dicono che il maestro praticava il lavoro, perché credeva in esso.
Una delle due fotografie mostra Caprilli a fianco della spalla sinistra della cavalla al trotto, entrambi nel tempo di sospensione degli arti dal suolo. La cavalla porta il fascione e un tipo di redine che è quello regolamentare, dell'epoca, dell'esercito austriaco, per fissare il collo del cavallo e dare la flessione verticale (o piego): due cordicelle, attaccate all'anello centrale del fascione, al garrese, scorrono negli anelli a lato della testiera, all'altezza delle parotidi, e si collegano agli anelli del filetto. Regolano il grado di elevazione dell'incollatura. Due redini fisse, tese tra gli anelli del filetto e gli anelli laterali del fascione, poco sotto il garrese, mantengono la flessione verticale. Siamo nel 1906. Il sistema naturale di equitazione non solo è stato completato, ma viene applicato nell'istruzione dei cavalieri e nell'addestramento dei cavalli dell’ esercito. Si sta diffondendo nel mondo attraverso gli ufficiali esteri che frequentano i corsi alla Scuola di cavalleria italiana. E’ già uscito il nuovo Regolamento di esercizi per la cavalleria (20 ottobre 1901 ) che sostituisce quello del 1896 e, in parte, accoglie il rinnovamento introdotto da Caprilli con l'esempio e con l'articolo “Per l'equitazione di campagna”, pubblicato sulla “Rivista di cavalleria” nel numero di gennaio-febbraio del 1901.
Il particolare accredita l’opinione che Caprilli ufficialmente lavorasse e scrivesse solo in funzione dell'equitazione militare, quella utile alla cavalleria dell'esercito, senza alcun fine rivolto all'equitazione artistica. Ma in privato praticasse, da artista qual era, l'equitazione usando tutta la tecnica dell' equitazione di scuola, che aveva imparato lavorando con Paderni.
Nel lavoro a mano, le prime volte, è necessario un aiutante, che si pone di lato dietro il puledro per farlo avanzare. Il puledro viene preparato con la sella (alla quale dev'essere stato precedentemente abituato) e un filetto con stanghette. L'addestratore impugna le due redini, la destra nel pugno destro appoggiato sulla sella appena sotto il pomo, la sinistra con la mano sinistra il più avanti possibile, anche impugnando lo stesso anello del filetto. Si mette a lato del puledro, all'altezza della spalla, sinistra, le prime volte, perché è più facile. Questo è uno dei modi di lavorare “a mano”.
Il risultato da raggiungere è che il puledro cammini sulla pista con l'addestratore alla sua sinistra o destra, spinto dal richiamo della lingua e dalla bacchetta che l'addestratore tiene nella mano della redine interna, applicata sul fianco del puledro. La bacchetta fa le veci della gamba. Le redini, leggermente tese, abituano il puledro al contatto della mano e alle prime azioni. La redine esterna tiene il contatto senza agire. L’ interna compie le prime azioni per mobilizzare la bocca e renderla cedevole. Un primo scopo è raggiunto quando il puledro avanza camminando sulla linea retta, senza venire verso l'addestratore (e fa questo incurvando il collo all'esterno e caricando il proprio peso sulla spalla interna, cedendo alla tensione facilmente eccessiva della redine esterna e ignorando la redine interna, che dovrebbe agire come redine d’ appoggio), ma tirandolo volenterosamente in avanti. Il lavoro è faticoso per l'addestratore e la fatica cresce proporzionalmente all' altezza dell' animale.
Il vantaggio del procedimento sta nel poter agire con le redini e la bacchetta, avendo da terra la visione generale dell' animale, ciò che non si ha in sella, senza disturbare il puledro, affollato e allarmato da tante novità che si presentano tutte insieme, senza aggiungere l' impaccio e la fatica che il peso del cavaliere comunque costituisce. In questo lavoro, l'associazione di impressioni gioca un ruolo evidente, anche per il lettore più dubbioso. Il puledro ha già imparato a fermarsi al segnale di “alt” della voce. Al segnale della voce si aggiunge ora l' aumento della tensione delle redini. Contemporaneamente l'addestratore rallenta il passo sino a fermarsi. Il puledro lo imita. L'agente principale, che era la voce, attraverso la ripetizione, viene sostituito dall'agente secondario, le redini, che con l'abitudine prendono il posto della voce, diventando agente principale. La voce, che si associa all'azione delle redini, rafforza l'impressione e rende più pronta l'obbedienza. A ciò si aggiunga la cessazione della tensione delle redini quando è stata ottenuta l’ immobilità.
L’ impressione gradevole della fine di quello che, nel migliore dei casi, non può essere sentito dal puledro che come un fastidio, assume il valore di ricompensa. Quante volte infatti si legge che, alla prima manifestazione di obbedienza, l'azione (delle mani o delle gambe) deve diminuire, per cessare dei tutto non appena ottenuto il consenso?
Ecco come l'addestramento del cavallo porta a buon diritto l'appellativo di “operazione di psicologia”. In quanto è stato fin qui descritto non c'è traccia di alcunché di fisico o di muscolare. Tutto riguarda il cervello del puledro, da cui si dipartono gli stimoli che fanno agire in un certo modo i muscoli, per il bene o il male del cavaliere.
Nel lavoro a mano si può ottenere qualsiasi movimento, in qualsivoglia direzione. Se l'addestratore è abbastanza atletico, può ottenere partenze al trotto, seguite da diversi tempi (Finché lo permette la condizione fisica dell'addestratore, una volta tanto!) e partenze al galoppo dal passo, su entrambi i piedi.
La visione completa del cavallo aggiunge alla sensibilità dell'addestratore un ulteriore elemento di valutazione. Quando monterà in sella ne sentirà i sorprendenti vantaggi. Alla prima difficoltà morale o fisica, potrà far piede a terra e risolvere la difficoltà da terra, con un lavoro lento. La lentezza riduce la forza delle contrazioni muscolari, mette il sistema nervoso dei cavallo in uno stato di rilassatezza, pone l'addestratore nelle migliori condizioni per poter correggere gli errori commessi dall'una o dall'altra parte dell'ippantropo e per correre ai ripari.
In questo modo (ma ovviamente non solo con questo, piuttosto con lo spirito di questo modo) all'insegna della sensibilità guidata da una tecnica acquisita razionalmente, grandi addestratori prima e cavalíeri poi, un nome per tutti, Henry Chammartin (che non ha ricevuto una cultura classica e non mi risulta conosca il nome di Gustave le Bon, ma è stato allievo di un maestro ed è il portato di una educazione equestre), hanno costruito campioni e raggiunto le più alte aspirazioni, anche di classifica e di medaglie olimpiche, se vogliamo misurare la qualità con il metro più in voga e qualificante: la competizione. Ciò che non potremmo fare con la musica, arte che per tanti aspetti si apparenta con l'equitazione.
 
* Medea delle Fiocche, nata nel 1981, acquistata da Alberto Bolaffi, arrivata al Quadrifoglio (Sciolze, Torino) nel 1984, addestrata dall’autore, vincitrice del XLIII Premio nazionale di allevamento, montata da Mario Gard.
 
Da: Paolo Angioni, A cavallo di un secolo, 1985 
Nella foto: il col. Paolo Angioni
 
Prende l'avvio, grazie alla disponibilità della famiglia Angioni, la nuova iniziativa editoriale del CR FISE Lazio, finalizzata alla diffusione degli scritti di tecnica equestre del col. Paolo Angioni, elaborati tra il 1990 e il 2010, frutto della sua attività sportiva e di docente. La pubblicazione sarà settimanale. iniziamo con il testo dal titolo: Posizione al galoppo, preceduto da alcune note biografiche dell'autore.   
Paolo Angioni nasce a Cagliari, 22 gennaio 1938. Inizia a montare all'età di dieci anni presso la Società Ippica Torinese, dove riceve l'impronta fondamentale dal col. Achille Di Stasio, prima, e dai colonnelli. Gastone Pianella e Vincenzo Arnone, entrambi provenienti dai Corsi di equitazione di Pinerolo e di Tor di Quinto. 
Dal 1958 al 1961 lavora con il generale Francesco Amalfi, allievo di Federico Caprilli, poi capo centro ippico militare a Pinerolo e a Tor di Quinto, preparatore delle squadre di salto ostacoli e di concorso completo alle olimpiadi di Los Angeles nel 1932 e di Berlino nel 1936, ricevendone una lezione equestre e intellettuale fondamentale e indimenticabile.
L'impronta più notevole nel modo di montare nei concorsi di salto ostacoli la deve all'allora cap. Piero dInzeo, con cui lavora dal 1962 al 1964. 
Contestualmente, dal 1963 lavora con il marchese Fabio Mangilli, preparatore per conto della F.I.S.E. della squadra di concorso che andrà allolimpiade di Tokyo (1964) e a quella di Città del Messico (1968). Il marchese è colui che, nella pratica, gli ha fatto toccare con mano l'importanza di lasciare la testa del cavallo, quindi l'incollatura, il cosiddetto bilanciere, libertà fondamentale.
Altre esperienze di rilievo sono quelle a contatto  con Henri Chammartin (vincitore della medaglia d'oro individuale nel Dressage all'Olimpiade di Tokyo) e con Pierre Durand allora écuyer en chef - comandante, del Cadre Noir di Saumur. Con questo maestro e successivamente con il maestro Nuno Oliveira, l'equitazione in sella viene accompagnata da un'importante crescita culturale grazie alla lettura dei testi antichi messigli a disposizione dai due grandi maestri. 
Il col. Paolo Angioni possiede una biblioteca personale di oltre 1000 testi tra cui tutti i primi trattati dei maestri italiani del Rinascimento (Grisone, Fiaschi, Corte, Caracciolo, Siliceo, ecc.). Ha inoltre tradotto il grande capolavoro del generale L’Hotte, Questioni equestri;  Equitazione ragionata di Jean Licart; Capire l’equitazione di Jean Saint-Fort Paillard;  Equitazione accademica del Generale Decarpentry. 
 
Principali gare e vittorie:
-    Campione italiano Junior di salto nel 1955 e di concorso completo nel 1955 e 1956.
-    Numerose vittorie nei concorsi di salto e di concorsi completi nazionali e internazionali dal 1963 al 1976.
-    Medaglia d’oro a squadre, specialità concorso completo, olimpiadi di Tokyo, 1964.
-    Olimpiadi di Città del Messico, specialità concorso completo, 1968.
 
1) POSIZIONE AL GALOPPO
 
Nella foto Pagoro, Piazza di Siena 1964. Pagoro, nato nel 1944 a Persano. Ha partecipato nel 1952 all'olimpiade di Helsinki nel concorso completo, 6°, con Piero d'Inzeo; al campionato del mondo nel 1954 a  Madrid con Salvatore Oppes, campione dei cavalli con tre percorsi netti e due con 4 penalità; all'olimpiade di Stoccolma nel 1956 con Salvatore Oppes, bronzo di squadra nel salto ostacoli. Piazza di Siena 1964 è stata la sua ultima vittoria. Cavallo unico, straordinario, nessuno come lui, una grinta incredibile. Da onorare. E' sepolto a Montemaggiore.
 
Assetto per galoppare. E' più logico scrivere posizione. Le due parole spesso si confondono. Nel quarto voto d'insieme del giudice del rettangolo è scritto «posizione, assetto». L'assetto è uno solo per tutte le posizioni. Si può definire la qualità della posizione. Le posizioni sono molte e dipendono dalla lunghezza degli staffili e dall'inclinazione del busto. Senza staffe - massima lunghezza - il busto non può che stare verticale. Con la staffatura da corsa non si può galoppare seduti. Il busto si piega in avanti fino a diventare parallelo al collo del cavallo.
Si può galoppare in sospensione elastica sulle staffe (o “sull’inforcatura”, come si dice anche, scorrettamente) o seduti.
Nel primo caso si è in equilibrio sulle staffe, che sono la base, nel secondo caso sulle natiche, che sono a loro volta la base.
Nel secondo caso la staffa porta il solo peso della gamba. Il resto del peso, la maggior parte, è scaricato sulle natiche, quindi sulla sella, con un'unica articolazione funzionante (in modo molto ridotto) tra peso del busto e base, quella coxo-femorale.

Nel primo caso tre articolazioni (coxo-femorale, del ginocchio, della caviglia) ammortizzano i movimenti del  busto e rendono l’assetto “leggero”. Il peso del cavaliere rimane sempre lo stesso, ma è ammortizzato dal gioco di chiusura e di apertura delle tre articolazioni. Se ben fatto, in accordo con l’andatura del galoppo, questo gioco rappresenta un sollievo per il cavallo e anche per il cavaliere, il quale, a sua volta, ammortizza  le reazioni provocate dall’andatura e sopporta meglio un galoppo prolungato. In campagna, in un cross del concorso completo, in una corsa piana o a ostacoli, un buon cavaliere sceglie la prima posizione. La staffatura si accorcia. Il busto va inclinato in avanti in rapporto alla velocità. E’ bene osservare i movimenti del busto di un buon fantino (Dettori, per esempio) in dirittura di arrivo.

Non è vero quello che si sente dire da cavalieri e istruttori non competenti, che l’assetto leggero porta un eccessivo peso sulle spalle. Un cavallo che allunga l’andatura del galoppo porta necessariamente più peso verso l’avantreno e il cavaliere si comporta di conseguenza. L’importante è che il cavaliere sia in accordo con il cavallo. Il cavallo impegna maggiormente il posteriore e trova il suo equilibrio.

Quando si lavora in piano, siccome è di primaria importanza l’uso degli aiuti (gambe, mani, peso del corpo), si galoppa seduti. E’ anche un fatto estetico. Nel galoppo seduto le gambe possono agire liberamente, mentre nel galoppo sollevato la gamba, avendo una maggiore funzione di sostegno, è limitata nelle possibilità di movimento. Ma non è detto che in lavoro si debba sempre galoppare seduti. Con un cavallo sportivo (salto, concorso completo), per esempio, per controllare la rispondenza del cavallo negli allungamenti e nei rallentamenti, si passa dal galoppo seduto a quello sollevato aumentando la velocità dell'andatura, ci si siede per rallentare e fermare.

Andando a saltare e in percorso come si monta? La nostra monta (quella tradizionale italiana di derivazione caprilliana) è sollevata. Si può fare tutto un percorso, anche grosso, rimanendo in equilibrio sulle staffe, sedendosi, più o meno o niente, nelle girate e questo fatto dipende anche dal cavallo che si monta. Con un cavallino leggero, di non molti mezzi (com’era per esempio Pagoro, m 1.56 al garrese, cavallo che lei non credo possa aver visto), si monta in equilibrio sulle staffe, facendo attenzione a non infastidire la schiena con le natiche. Con un cavallo grande e potente si può stare seduti, ma è anche possibile montare
“leggero”.

Non è vero che, sedendoci, il cavallo aumenta “di conseguenza” la velocità “perché si sente caricato sulla schiena”. Anzi, il raddrizzamento del busto, tipico del galoppo seduto, è in genere, in un cavallo lavorato per bene, un invito al rallentamento.

I grandi cavalieri italiani di un tempo (quelli di prima dell’ultima guerra e dopo: i d’Inzeo, Salvatore Oppes, Mancinelli, d’Oriola e i Francesi, anche i Tedeschi, Winckler, Thiedemann, Ligges, gli Statunitensi, ecc.) galoppavano in equilibrio sulle staffe. I percorsi non erano più facili e gli ostacoli più bassi, come erroneamente si crede e si sente dire o si legge. I percorsi delle occasioni importanti (coppe delle nazioni, gran premi, olimpiadi, campionati del mondo) erano grossi e difficili come oggi. I larghi erano veri larghi, non come quelli dei percorsi di Piazza di Siena di quest’anno. Ho visto di persona Piero d’Inzeo vincere su grossi percorsi al chiuso montando sulle staffe. Raimondo d’Inzeo ha vinto la medaglia d’oro all'Olimpiade di Roma su Posillipo, cavallo di media statura e leggero, montando “leggero”. Il cavallo non avrebbe tollerato una monta diversa.

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