La confidenza si raggiunge con il contatto fisico tra uomo e cavallo. Il puledro può diventare simile a un cane: segue l'uomo, che diventa da questo momento addestratore, ovunque, ed è bene verificare che lo faccia, portato sia a destra, sia a sinistra. Deve conoscerne la voce che, con un tono dolce, accompagnata da una ghiottoneria e da una carezza, assume il significato di ricompensa. La parola “bravo”, ripetuta ogni volta che si dà una zolletta di zucchero o una manciata di biada, acquista, pronunciata da sola, un potere calmante, rassicurante, di premio.
Il puledro, da quando ha incontrato l'uomo, è abituato a essere per consuetudine dell'uomo avvicinato, coperto, incapezzato, scapezzato, condotto solo dalla sua sinistra. Non segue l'uomo se questi si mette alla sua destra. Deve invece imparare a farlo, perché è una premessa necessaria per il lavoro “a mano” e alla corda a entrambe le mani e la condizione della simmetria muscolare, quindi della precisa obbedienza agli aiuti.
Della confidenza fa parte la conoscenza della bacchetta e la più completa fiducia del puledro in questo leggero bastoncino rigido di legno, spesso poco più di un centimetro e lungo anche un metro e venti centimetri, con il quale l'addestratore giunge, tenendo l'animale per la capezza, a toccarlo in ogni parte, sia a destra, sia a sinistra, accarezzandolo sul dorso, sulla groppa, lungo i fianchi e le cosce, lungo gli arti anteriori e posteriori, al loro interno, sotto il ventre, sul capo, tra le orecchie, sul muso e lungo la criniera, come se la bacchetta fosse la mano. Se il puledro in precedenza non ha conosciuto la “frusta”, si può agitare la bacchetta davanti ai suoi occhi, accarezzandolo le prime volte con l'altra mano, senza che esso dia segno del minimo sospetto. Tutt'al più mostra curiosità. Con un cavallo che si prova per la prima volta, la verifica della confidenza che esso ha con un oggetto che può ricordare la frusta è un segno della qualità dell'addestramento che ha ricevuto.
E’ importante, perché la bacchetta nel lavoro a piedi diventa lo strumento per far avanzare il cavallo, per far girare la sua groppa intorno alle spalle, per farlo indietreggiare, per muoverlo lateralmente, per spingere maggiormente gli arti posteriori sotto la massa. Il lavoro alla corda è necessario sia per far smaltire prima del lavoro “a mano” quell'eccesso di energia che il puledro accumula durante il riposo in scuderia, sia per precisare il linguaggio convenzionale, sia fine a sé stesso, per lavorare il cavallo quando non si può montare, sia per esercitarlo sul salto, facendogli superare libero, anche in campagna, gli ostacoli (fossi, riviere, salti nell'acqua, talus, combinazioni, ostacoli in dislivello, ... ) che dovrà saltare con il cavaliere. Questo accorgimento sviluppa una grande fiducia del puledro nei propri mezzi e ne accresce iniziativa e abilità. Gli insegna a rendersi padrone del proprio equilibrio in situazioni di difficoltà volutamente predisposte dall'addestratore.
Alla corda, il puledro deve imparare a girare con la stessa facilità a destra e a sinistra, mantenendosi alla distanza voluta dall'addestratore, senza chiudere il circolo,né tirare verso l'esterno. Deve imparare a ubbidire al suono delle parole “passo”, “trotto”, “galoppo”, “alt””, “vieni” , attraverso la ripetizione e la ricompensa. Inutile aggiungere altri suoni a questo ridotto ma sufficiente vocabolario. Nelle prime sedute di lavoro è necessario un aiutante che conosca il mestiere e i procedimenti. Il frustone sostituisce la bacchetta. Si ripetono le stesse operazioni per la confidenza con il frustone.
Nel lavoro alla corda si usa il capezzone, ben imbottito nella parte che si applica al muso. Aggiunto al capezzone, un filetto con stanghette abitua il puledro all'imboccatura.
Quando il puledro ha imparato a girare alle due mani e a ubbidire al richiami della voce, affinché prenda fin dalle prime volte una buona posizione di collo e di testa, è utile usare una redine speciale. Dea* ha usato per circa un mese la redine gogue indipendente, perfezionata dal colonnello Margot. Così da chiamarsi “gogue Margot”. Il primo è il cognome dell'ingegnere e cavaliere che l'ha ideata. Questa redine ha il vantaggio di lasciare libero il bilanciere, fatto di capitale importanza, evitando però gli atteggiamenti scorretti sul piano orizzontale e verticale, tendendo l'incollatura in avanti, obliquamente verso il terreno, ciò che distende, di conseguenza, i muscoli dorsali. Il grado dì tensione che si dà alla redine regola il grado d'inclinazione dell'incollatura.
La redine è un artificio necessario, utile, inutile, dannoso a seconda della conformazione del puledro. Sta all'intelligenza e alla perizia dell'addestratore usarla o no e soprattutto, nel caso la usi, aggiustarla. Può diventare, come tutti gli aiuti artificiali, un'arma a doppio taglio. Perciò bisogna osservarne, di giorno in giorno, gli effetti. E’, per esempio, sconsigliabile con un cavallo costruito pesante davanti, con la groppa più alta del garrese (“in discesa”), anche se porta, ammesso, la testa al vento. Il lavoro in libertà in maneggio coperto o scoperto (o nel corridoio, per chi lo possegga), con due persone che mantengano il puledro sulla pista, è utile. Il puledro può galoppare e acquistare più facilmente quel primo grado di condizione fisica che gli consente di sopportare con minor fatica il lavoro, soprattutto montato. Prende confidenza con le prime barriere a terra sulla pista e con i primi piccoli ostacoli, anche se non si desidera farne un saltatore, ma un cavallo accademico. Sono tutti esercizi di ginnastica e di muscolazione non specialistica.
Il lavoro “a mano” o, se si vuole, “a piedi” o “smontato” (ma la prima dizione è quella classica) è anch'esso utile. C'è chi ne ha fatto e ne fa a meno e ha costruito campioni di salto. Perciò potrebbe sembrare superfluo. Invece, per l'addestramento di un cavallo che diverrà facile e maneggevole, anche nella competizione di salto, è difficilmente sostituibile.
Pur avendo avuto origine nelle accademie equestri italiane del Rinascimento, non è praticato in Italia. Non viene insegnato nelle nostre scuole di equitazione, né se ne trova traccia nei libri recenti o contemporanei italiani. Caprilli conosceva e praticava il lavoro. Due fotografie con la cavalla Itala, scattate a Tor di Quinto nel 1906, lo documentano. I puristi caprilliani, per giustificare questo legame con il lavoro genericamente definito “di scuola”, dicono che Caprilli vi si dedicasse per ingraziarsi le autorità militari, sospettose di quel giovane capitano rivoluzionario. Ma altre testimonianze, tra cui quella dell'allora sottotenente Amalfi, allievo del primo corso Caprilli, dicono che il maestro praticava il lavoro, perché credeva in esso.
Una delle due fotografie mostra Caprilli a fianco della spalla sinistra della cavalla al trotto, entrambi nel tempo di sospensione degli arti dal suolo. La cavalla porta il fascione e un tipo di redine che è quello regolamentare, dell'epoca, dell'esercito austriaco, per fissare il collo del cavallo e dare la flessione verticale (o piego): due cordicelle, attaccate all'anello centrale del fascione, al garrese, scorrono negli anelli a lato della testiera, all'altezza delle parotidi, e si collegano agli anelli del filetto. Regolano il grado di elevazione dell'incollatura. Due redini fisse, tese tra gli anelli del filetto e gli anelli laterali del fascione, poco sotto il garrese, mantengono la flessione verticale. Siamo nel 1906. Il sistema naturale di equitazione non solo è stato completato, ma viene applicato nell'istruzione dei cavalieri e nell'addestramento dei cavalli dell’ esercito. Si sta diffondendo nel mondo attraverso gli ufficiali esteri che frequentano i corsi alla Scuola di cavalleria italiana. E’ già uscito il nuovo Regolamento di esercizi per la cavalleria (20 ottobre 1901 ) che sostituisce quello del 1896 e, in parte, accoglie il rinnovamento introdotto da Caprilli con l'esempio e con l'articolo “Per l'equitazione di campagna”, pubblicato sulla “Rivista di cavalleria” nel numero di gennaio-febbraio del 1901.
Il particolare accredita l’opinione che Caprilli ufficialmente lavorasse e scrivesse solo in funzione dell'equitazione militare, quella utile alla cavalleria dell'esercito, senza alcun fine rivolto all'equitazione artistica. Ma in privato praticasse, da artista qual era, l'equitazione usando tutta la tecnica dell' equitazione di scuola, che aveva imparato lavorando con Paderni.
Nel lavoro a mano, le prime volte, è necessario un aiutante, che si pone di lato dietro il puledro per farlo avanzare. Il puledro viene preparato con la sella (alla quale dev'essere stato precedentemente abituato) e un filetto con stanghette. L'addestratore impugna le due redini, la destra nel pugno destro appoggiato sulla sella appena sotto il pomo, la sinistra con la mano sinistra il più avanti possibile, anche impugnando lo stesso anello del filetto. Si mette a lato del puledro, all'altezza della spalla, sinistra, le prime volte, perché è più facile. Questo è uno dei modi di lavorare “a mano”.
Il risultato da raggiungere è che il puledro cammini sulla pista con l'addestratore alla sua sinistra o destra, spinto dal richiamo della lingua e dalla bacchetta che l'addestratore tiene nella mano della redine interna, applicata sul fianco del puledro. La bacchetta fa le veci della gamba. Le redini, leggermente tese, abituano il puledro al contatto della mano e alle prime azioni. La redine esterna tiene il contatto senza agire. L’ interna compie le prime azioni per mobilizzare la bocca e renderla cedevole. Un primo scopo è raggiunto quando il puledro avanza camminando sulla linea retta, senza venire verso l'addestratore (e fa questo incurvando il collo all'esterno e caricando il proprio peso sulla spalla interna, cedendo alla tensione facilmente eccessiva della redine esterna e ignorando la redine interna, che dovrebbe agire come redine d’ appoggio), ma tirandolo volenterosamente in avanti. Il lavoro è faticoso per l'addestratore e la fatica cresce proporzionalmente all' altezza dell' animale.
Il vantaggio del procedimento sta nel poter agire con le redini e la bacchetta, avendo da terra la visione generale dell' animale, ciò che non si ha in sella, senza disturbare il puledro, affollato e allarmato da tante novità che si presentano tutte insieme, senza aggiungere l' impaccio e la fatica che il peso del cavaliere comunque costituisce. In questo lavoro, l'associazione di impressioni gioca un ruolo evidente, anche per il lettore più dubbioso. Il puledro ha già imparato a fermarsi al segnale di “alt” della voce. Al segnale della voce si aggiunge ora l' aumento della tensione delle redini. Contemporaneamente l'addestratore rallenta il passo sino a fermarsi. Il puledro lo imita. L'agente principale, che era la voce, attraverso la ripetizione, viene sostituito dall'agente secondario, le redini, che con l'abitudine prendono il posto della voce, diventando agente principale. La voce, che si associa all'azione delle redini, rafforza l'impressione e rende più pronta l'obbedienza. A ciò si aggiunga la cessazione della tensione delle redini quando è stata ottenuta l’ immobilità.
L’ impressione gradevole della fine di quello che, nel migliore dei casi, non può essere sentito dal puledro che come un fastidio, assume il valore di ricompensa. Quante volte infatti si legge che, alla prima manifestazione di obbedienza, l'azione (delle mani o delle gambe) deve diminuire, per cessare dei tutto non appena ottenuto il consenso?
Ecco come l'addestramento del cavallo porta a buon diritto l'appellativo di “operazione di psicologia”. In quanto è stato fin qui descritto non c'è traccia di alcunché di fisico o di muscolare. Tutto riguarda il cervello del puledro, da cui si dipartono gli stimoli che fanno agire in un certo modo i muscoli, per il bene o il male del cavaliere.
Nel lavoro a mano si può ottenere qualsiasi movimento, in qualsivoglia direzione. Se l'addestratore è abbastanza atletico, può ottenere partenze al trotto, seguite da diversi tempi (Finché lo permette la condizione fisica dell'addestratore, una volta tanto!) e partenze al galoppo dal passo, su entrambi i piedi.
La visione completa del cavallo aggiunge alla sensibilità dell'addestratore un ulteriore elemento di valutazione. Quando monterà in sella ne sentirà i sorprendenti vantaggi. Alla prima difficoltà morale o fisica, potrà far piede a terra e risolvere la difficoltà da terra, con un lavoro lento. La lentezza riduce la forza delle contrazioni muscolari, mette il sistema nervoso dei cavallo in uno stato di rilassatezza, pone l'addestratore nelle migliori condizioni per poter correggere gli errori commessi dall'una o dall'altra parte dell'ippantropo e per correre ai ripari.
In questo modo (ma ovviamente non solo con questo, piuttosto con lo spirito di questo modo) all'insegna della sensibilità guidata da una tecnica acquisita razionalmente, grandi addestratori prima e cavalíeri poi, un nome per tutti, Henry Chammartin (che non ha ricevuto una cultura classica e non mi risulta conosca il nome di Gustave le Bon, ma è stato allievo di un maestro ed è il portato di una educazione equestre), hanno costruito campioni e raggiunto le più alte aspirazioni, anche di classifica e di medaglie olimpiche, se vogliamo misurare la qualità con il metro più in voga e qualificante: la competizione. Ciò che non potremmo fare con la musica, arte che per tanti aspetti si apparenta con l'equitazione.
 
* Medea delle Fiocche, nata nel 1981, acquistata da Alberto Bolaffi, arrivata al Quadrifoglio (Sciolze, Torino) nel 1984, addestrata dall’autore, vincitrice del XLIII Premio nazionale di allevamento, montata da Mario Gard.
 
Da: Paolo Angioni, A cavallo di un secolo, 1985 
Nella foto: il col. Paolo Angioni
 

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